Tutti i dettagli della costruzione de “La Valle dei Re”, la prima spettacolare dark-ride di Gardaland, raccontati da Valerio Mazzoli, lo scenografo che la ideò e realizzò insieme al fratello Claudio

Correva l’anno 1988 e Gardaland inaugurava la stagione presentando al pubblico una tipologia di attrazione unica in Italia: La Valle dei Re, una dark ride maestosa e originale, qualcosa di veramente eccezionale per l’epoca.
Va precisato che non fu la prima dark ride apparsa nel panorama nazionale: due anni prima, nel 1986, all’Edenlandia di Napoli era stato inaugurato il Viaggio di Sogno, versione italiana di It’s a Small World con veicoli sospesi simili ai vascelli di Peter Pan’s Flight presso Disneyland.
In Europa erano inoltre sorte come funghi grandi ride tematiche all’interno dei principali parchi a tema, da Efteling a Europa Park. Dove stava allora la differenza tra la Valle dei Re e le altre attrazioni di questo tipo?
Principalmente nella qualità del lavoro dovuta alla bravura dei suoi creatori, i fratelli Mazzoli, nelle dimensioni spettacolari dell’opera, ma anche nella filosofia progettuale e realizzativa che stava all’origine di tutto questo: la cosiddetta Scuola Disney.
Il bagaglio lavorativo e l’esperienza apprese in America permisero alla Mazzoli Productions di creare qualcosa di un livello tale che altri nell’Europa di allora non potevano raggiungere per semplice imitazione.
Dall’ideazione degli storyboard all’esecuzione di plastici e modelli in scala completi di ogni dettaglio, dalla scultura alla modellazione dei singoli soggetti, dalle scenografie agli arredi, dalla decorazione ai costumi, dalla robotica alla meccanica, dalla progettazione architettonica alla costruzione in cantiere, dalle luci alle musiche, tutto fu orchestrato da una regia molto precisa, appresa in anni di esperienza oltreoceano.
L’attrazione si sviluppava in un edificio interrato di 4200 metri quadrati e aveva come facciata la riproduzione del tempio di Abu Simbel in scala 1:2. All’interno, settantacinque animatronici gestiti da una sala regia computerizzata battezzata Ramsete I, accompagnavano i visitatori nei meandri del tempio attraverso un percorso che si svolgeva a bordo di cinquanta silenziosi veicoli.
Fu senza dubbio questa la realizzazione che cambiò per sempre la storia di Gardaland, un punto di svolta decisivo per l’affermazione del parco quale icona nazionale del divertimento.
Valerio Mazzoli racconta: “Nel 1986 tornò in vacanza in Italia mio fratello Claudio, che allora lavorava ancora in America dove aveva appena progettato lo show Conan the Barbarian per gli Universal Studios.
Venne a farmi visita a Gardaland e gli mostrai quanto avevo fatto nei miei primi pionieristici anni al parco; il lavoro cresceva e l’opportunità di fare delle realizzazioni importanti per questo cliente era prossima, perciò mi venne naturale proporgli di tornare in pianta stabile e di mettersi in società con me.
I primi lavori fatti assieme furono la Galleria di Prezzemolo, già citata in un precedente articolo, poi il ristorante Self Service Aladino e soprattutto La Valle dei Re.
Progettammo inoltre la scenografia per l’attrazione Colorado Boat, più comunemente nota come Tronchi per la quale costruimmo un grande plastico in scala. La realizzazione, in particolare delle rocce, fu eseguita dal parco stesso e senza il nostro intervento diretto”.
Il Self Service Aladino
“Nel 1986 - continua Mazzoli - c’era la necessità di dotare il parco di un nuovo self service per famiglie in grado di soddisfare un’ampia fascia di pubblico, dato che i ristoranti già esistenti non bastavano più a garantire un’offerta adeguata al picco giornaliero di ospiti.
Visto che era già in programma di realizzare l’Egitto, pensammo a un tema fantasioso che andasse a formare un quartiere orientale, poi completato nel 1989 con il Souk Arabo: decidemmo perciò di lavorare sulla favola di Aladino. Usammo prefabbricati di tipo commerciale, il che permise di costruire una grande struttura contenendo i costi rispetto ad un edificio tradizionale.
Il ristorante era composto da pannelli di cemento assemblati e poi decorati con fregi e colonne che avrebbero nascosto i giunti di dilatazione e così anche erano fatte le grandi torri cilindriche; le torri più alte e sottili vennero invece realizzate con una struttura metallica dalla ditta F.lli Pinfari che in seguito lavorò per la Valle dei Re, e quindi rivestite per sembrare in muratura.
Le cupole vennero realizzate da un bravo artigiano toscano con delle piastrelle a mosaico: le piccole composte in un pezzo unico e poi issate con la gru, mentre per le cupole grandi furono preparate delle sezioni che venivano assemblate su una struttura metallica.
Tra le foto che ho trovato nel mio archivio ce n’è una del modellino preliminare in cartoncino, non rifinito, ma semplicemente abbozzato per studiare le masse delle torri. I fregi esterni erano realizzati con stampi assemblati e il tutto costò relativamente poco, se parametrato con il risultato finale.
Producemmo una serie delle formelle decorative con delle scritte in Arabo: avevamo preso il riferimento da stampe e libri, ma ci fu fatto notare da una persona madrelingua che composte così non significavano niente, quindi ci preparò delle scritte con delle frasi vere con messaggi di saluto e parole beneauguranti.
All’interno avevamo lavorato con la stessa filosofia tesa a realizzare una bella opera con soluzioni intelligenti che facessero risparmiare nell’allestimento, poiché il locale era davvero grande: il soffitto della zona bar era fatto con teloni colorati che componevano un drappo, come fosse l’interno di una tenda sfarzosa.
Usammo pannelli grigliati in alluminio sia per i soffitti che per tutte le pareti divisorie, intercalati da colonne decorate; alle pareti c’erano dei quadri con grandi scene pittoriche progettate da Claudio e dipinte dalla squadra dello scenografo Pizzarelli che ci coadiuvava nell’esecuzione di alcune opere.
C’era la teca del tesoro di Alì Babà con forziere, spade e la famosa lampada; tutto il mobilio fu realizzato su misura dall’azienda di arredamenti di mio padre.
Poi integrammo con alcuni oggetti prefabbricati come la fontana in pietra, o con opere più impegnative e prodotte appositamente come per l’angolo del lucernario dove avevamo realizzato una parete di roccia artificiale dalla quale scendeva una cascata d’acqua.
Tra l’altro di mia iniziativa, andai alla ricerca di uno sponsor che potesse finanziare parzialmente l’opera e riuscii a stringere un accordo con la Coca-Cola che pagò ben 200 milioni di Lire, che all’epoca erano una bella cifra!”.
La Valle dei Re
Valerio Mazzoli continua nel suo racconto: “La dirigenza aveva da tempo l’intenzione di costruire una grande attrazione all’americana, ma la maggior parte dei componenti si era innamorata del tema dei Pirati.
Io cercai di convincerli a puntare su qualcosa di più originale: ero sempre stato molto affascinato dalla storia dell’antico Egitto e già quando ero in America alla Disney avevo iniziato a fantasticare su una realizzazione di questo tipo.
La mia idea originariamente non era un’avventura alla Indiana Jones, ma piuttosto un viaggio nell’antico Egitto segreto e misterioso: non una cosa di tipo didattico, intendiamoci, ma piuttosto un percorso magico e ricco di suggestioni. Ad esempio, con i sacerdoti intenti nelle arti alchemiche e nelle scienze astronomiche, i riti dell’imbalsamazione e situazioni di questo genere. Poi il successo della saga di Indiana Jones ci spinse inevitabilmente a lavorare su qualcosa di più cinematografico e avventuroso.
Cominciai a lavorarci prima ancora che mio fratello Claudio tornasse stabilmente in Italia. Quando andai a trovarlo a Los Angeles ne parlammo nel salotto di casa sua e mi propose di creare la facciata come una riproduzione del tempio di Abu-Simbel di Ramsete II. Io inizialmente pensavo a una piramide, ma la proposta mi piacque e così lui la disegnò.
Per il percorso interno decidemmo di lavorare sulla storia di Tutankhamon, basandoci sulle vicende legate alla scoperta della sua tomba da parte degli archeologi Lord Carnavon e Howard Carter e alla leggenda della maledizione che sembrò colpire tutti i protagonisti dello straordinario ritrovamento, ovviamente creando una storia totalmente originale e di fantasia.
Quando tornò in Italia io avevo già progettato il percorso a trasporto continuo tipo quello di Phantom Manor a Disneyland; Trovai che l’azienda italiana F.lli Pinfari, produttrice di giostre, fosse il candidato ideale alla realizzazione del sistema di movimentazione.
Volevo un vagoncino neutro, semplicissimo e quasi invisibile, e che si muovesse su una specie di nastro traportatore. Nel frattempo spostammo lo studio in un edificio più grande che divenne un’azienda strutturata, inizialmente di tredici persone, ma poi diventarono molte di più.
Per prima cosa, una volta approvata la storia, Claudio disegnò dei grandi storyboard a colori, poi realizzammo un plastico dettagliatissimo del percorso diviso per scene. Questa era una tecnica che aveva inventato Walt Disney all’epoca dei Pirati dei Caraibi: passando attraverso i plastici posti su dei cavalletti ad altezza dello sguardo, si poteva avere l’esatta simulazione di come sarebbe stato il giro nell’attrazione una volta costruita.
C’erano anche le miniature dei personaggi; ne avevamo modellati alcuni in posizione standard e una volta realizzato il calco in gomma siliconica venivano riprodotti in resina, tagliate gambe e braccia nelle articolazioni e fissati nelle varie posizioni in cui li volevamo, quindi infine si vestivano e si decoravano uno diverso dall’altro.
Quando furono terminati i modelli in scala realizzammo un video, un vero e proprio mini film che presentammo alla dirigenza in un cinema che avevo affittato per l’occasione: fu un evento molto emozionante e poi seguì la firma del contratto per l’esecuzione dell’opera.
Realizzammo una moltitudine di progetti architettonici esecutivi degli esterni e degli interni, disegni dei particolari fino al più piccolo dettaglio, quindi dividemmo le squadre di lavoro per settori: chi si occupava della scultura degli elementi architettonici per i set, chi dell’oggettistica, chi degli effetti speciali e della robotica, chi dei costumi, mentre io e mio fratello ci occupammo personalmente di modellare quasi tutte le teste dei personaggi.
Ogni piccolo particolare realizzato in scala veniva preso in carico da un collaboratore che si occupava di riprodurlo in dimensioni reali, con il riferimento di libri, foto e basandosi su precisi riferimenti reali.
Fu un lavoro davvero pregevole e con una cura quasi museale, impiegando non solo la resina, ma anche il legno, rivestimenti in foglia oro e altri materiali veri. Il risultato fu che molti manufatti sembravano alla vista addirittura autentici pezzi antichi. Pur con tutti gli stress e le difficoltà che si incontrano in realizzazioni di questa portata, e ce ne furono, ci mettemmo molto entusiasmo, cura e passione nella realizzazione di un’opera che speravamo sarebbe stata unica.
Per la costruzione delle grandi scenografie come colonne, pareti ed elementi architettonici scolpimmo in polistirolo i modelli base sui quali veniva successivamente eseguito il calco per le riproduzioni in vetroresina o cemento.
Le statue di Ramsete per la facciata esterna furono realizzate proprio così: il modello in polistirolo della testa fu eseguito da Salvatore Cagnina, uno scultore che lavorava per la Fabbrica del Duomo di Milano, mentre il corpo e le rifiniture furono affidati a Remo Bombardieri, un altro scultore con cui collaborammo anche in seguito. Affidammo la realizzazione esecutiva delle quattro grandi riproduzioni all’azienda Larco di Bergamo, specializzata in opere edili di particolare complessità.
Le statue furono fatte di cemento pieno, ma l’Ingegner Busoni che seguì per noi la costruzione volle che dietro avessero un volume vuoto, sia per ragioni di peso in fase di trasporto e montaggio, ma anche per lasciare un vano libero che permettesse la dilatazione termica ed evitasse la condensa dell’aria con conseguenti probabili infiltrazioni d’acqua nella struttura sottostante.
Una volta isolati i pezzi del grande prototipo in polistirolo con uno strato di gesso e varie mani di colore perché i solventi non lo danneggiassero, furono create delle enormi casseforme in vetroresina; nelle casseforme la Larco colava il cemento misto a sabbie per dargli una colorazione autentica, in modo che tutto l’amalgama risultasse della stessa tinta: scegliemmo delle sabbie che facemmo arrivare addirittura dall’Africa!
Il Cemento veniva vibrato all’interno di questi enormi stampi, in modo che aderisse a tutta la superfice cava e che non si perdesse alcun dettaglio dell’originale, poi una volta indurito, i cassoni delle casseforme venivano aperti e le statue rifinite a mano dagli scultori.
Per le scenografie interne, eseguivamo delle enormi carte da spolvero in scala 1:1, che servivano a tracciare i disegni sui pezzi da lavorare. I fondali come ad esempio la grande quinta con il cielo e la luna nella scena dell’accampamento degli archeologi, erano dipinti su enormi tele armate affinché potessero sostenersi e allo stesso tempo consentire che sul retro rimanesse lo spazio per un corridoio di servizio.
Per la stessa scena, che doveva ricreare una porzione di deserto, utilizzammo per la prima volta la Poliurea, un materiale poliuretanico con il quale oggi grazie alle moderne macchine spruzzatrici si possono ottenere superfici lisce e levigate ma che all’epoca veniva spruzzato in modo grezzo e poroso: perfetto per quanto serviva a noi che volevamo ricreare l’effetto sabbioso. Sotto c’era una base creata componendo una serie di praticabili in legno, in modo da creare la forma delle dune.
Poi ci fu un sacco di lavoro per produrre la miriade di suppellettili più piccole, soprattutto quelle che dovevano arricchire la sala del tesoro. Anche qui, per ricreare la montagna di monili e oggetti preziosi venne modellata una base in rete metallica per creare le masse, poi rivestita di pezzi riprodotti in resina e altri materiali.
Tantissimi piatti e altri oggetti che dovevano sembrare d’oro vennero addirittura stampati in materiale plastico con la macchina del sottovuoto; facemmo fare anche dei vasi di terracotta, tipo i vasi canopi, che poi venivano rotti appositamente e i pezzi sparpagliati qua e là nella sala.
L’attenzione al dettaglio era tale che spargemmo addirittura polveri e pezzi di cannucce di paglia, come si sarebbe potuto trovare nella tomba autentica, salvo poi scoprire che era passata una squadra delle pulizie di cantiere che aveva ripulito tutto!
Per ogni personaggio animatronico, o audio-pneumotronico, come erano stati battezzati i nostri soggetti animati, Claudio aveva disegnato dei bozzetti della movimentazione, poi tutto veniva inserito in una scheda tecnica che comprendeva dettagli tecnici, costumi ed accessori per la produzione esecutiva.
Proponemmo a un nostro giovane dipendente dal fisico atletico di fare da modello anatomico per tutte le posizioni dei soggetti, così si fece ritrarre in decine di fotografie che gli scultori poi usarono come riferimento.
I corpi erano fatti di parti in vetroresina con una struttura metallica interna e sotto ciascuno di questi aveva una cassa metallica che conteneva le componenti elettro-pneumatiche; la cassa veniva incassata in appositi alloggiamenti predisposti nella pavimentazione e risultava perciò invisibile una volta che erano stati montati i soggetti.
Una volta modellate le teste dei personaggi in creta o plastilina, veniva eseguito un calco in gesso nel quale poi si colava il lattice. Si ottenevano così delle maschere morbide ed elastiche, che venivano calzate sugli esoscheletri di vetroresina e deformandosi con i vari movimenti davano l’effetto della pelle umana; questo veniva fatto non solo per i volti ma per tutte le parti molli dei soggetti.
Ovviamente ciascuna di queste figure richiedeva un accurato lavoro di make-up, l’aggiunta di capelli, barbe e baffi finti, per non parlare degli elementi mobili della struttura sottostante, come occhi e dentature. Le mummie scheletriche, delle quali avevo realizzato personalmente il modello scultoreo, venivano bendate con le garze una ad una e poi impregnate con liquidi di diverse tonalità per renderle antiche e verosimili.
Non meno importante e impegnativo era il lavoro delle costumiste, tra le quali mia moglie Fawzia, che dovettero pensare a decine di abiti d’epoca ricchi di dettagli e accessori, ma ancor più predisposti per vestire i personaggi tenendo conto dei problemi tecnici dati dalle strutture e dai diversi movimenti.
Bisogna pensare che in Italia fino ad allora i robot erano una cosa mai vista prima, al massimo esistevano dei soggetti in vetroresina con movimenti minimi e molto semplici; in quel periodo capitò in visita allo studio il mio ex collega David Schwenninger della Disney, il quale vedendo gli animatronici in allestimento e sapendo le difficoltà che comportava tale lavoro mi chiese con aria ironica se pensavo che sarei riuscito a farli funzionare: ho sempre peccato un po’ di orgoglio, quindi gli risposi istintivamente con aria di sfida che sì, ce l’avrei fatta! E per fortuna ce la feci…
A tal proposito, una delle figure che ci diede maggior gratificazione per il risultato raggiunto fu la mummia del Faraone che si alzava in piedi lanciando la maledizione; studiammo molto al fine di ottenere un movimento realistico.
Riuscimmo a riprodurre la dinamica del movimento della persona reale. Andava avanti con la schiena, si alzava in piedi e spalancava le braccia. C’era un notevole problema di bilanciatura: facemmo diversi calcoli e il problema fu risolto con una serie di leve, poi il trono su cui sedeva il Faraone permise di nascondere i pistoni grossi che gestivano il movimento dell’alzata.
Anche l’apertura delle braccia nelle quali teneva gli scettri comportava problematiche di sincronizzazione per far si che queste non si incastrassero. Da seduto erano incrociate sul petto, ma risolvemmo tutto con una corretta programmazione dei computer.
Una curiosità tecnica: per un discorso di costi, già elevatissimi, dovemmo usare una movimentazione di tipo pneumatico, ossia con pistoni ad aria, a differenza della Disney che usava l’oleodinamica, che permette movimenti molto più morbidi ma che è molto più costosa e soprattutto delicatissima da gestire. Se si rompe un pistone oleodinamico, questo allaga d’olio tutto quanto, mentre se si stacca un tubo dell’aria compressa basta riattaccarlo o sostituire la guarnizione e la cosa si risolve facilmente.
Anche gli effetti speciali furono parecchio innovativi: il cono di luce laser che inserimmo alla fine del percorso, ad esempio, lo vedemmo impiegare agli Universal Studios nello show di Conan il Barbaro per il quale Claudio aveva progettato le scenografie, così ci venne l’idea di creare questo tunnel di luce verde che piacque moltissimo al pubblico.
Nella sala del sacrificio c’era la cascata di lava che avevamo fatto realizzare da Daniel Posniak, come noi un ex Imagineer della Disney. La forma della colata era una lastra di plexiglass trasparente modellata a caldo, poi dietro a questa con delle coppie di ruote di bicicletta aveva costruito dei rulli sovrapposti con delle righe nere disegnate sopra che giravano grazie a un motoriduttore e a una serie di catene. Quando il tutto veniva retroilluminato, sembrava che la lava scendesse nella vasca dove una ragazza stava per essere sacrificata agli Dei.
Una curiosità che forse pochi sanno è che realizzai un mio sosia animatronico. Dovevo scegliere che personaggio interpretare, quindi scelsi l’unico che era sopravvissuto alla maledizione e mi calai nei panni di Howard Carter! Gli diedi anche la voce, registrando l’audio per la scena del ritrovamento del tesoro.
Questo non fu tanto un modo per firmare l’attrazione, quanto più semplicemente un gioco, un classico inside jokes molto comune nel mondo dell'arte. Come ho detto fu un lavoro faticosissimo, ma anche divertente e che coincise con un periodo della mia vita professionale ricchissimo di stimoli e di entusiasmo. Un periodo che ovviamente ricordo con molta nostalgia, ma anche con molto orgoglio perchè quell'attrazione ha divertito per tanti anni milioni di persone".
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